Immagine che rappresenta il percorso di apprendimento degli studenti con dislessia (DSA) dalla scuola all'università, con un libro aperto e un cervello colorato su uno sfondo chiaro.

Giornata Nazionale della Dislessia: Intervista al Prof. Enrico Ghidoni sui Progressi e le Sfide dei DSA in Italia

Riflessioni sui DSA, 8 ottobre Giornata Nazionale della Dislessia.
Intervista al Prof. Enrico Ghidoni, Specialista in Neurologia, Socio della Società Italiana di Neuropsicologia e Docente di Neuroscienze presso l’Università di Modena e Reggio Emilia.
Già dirigente (fino al 2016) della Struttura di Neuropsicologia Clinica, Disturbi Cognitivi e Dislessia dell’Adulto presso IRCCS-Arcispedale S.Maria Nuova di Reggio Emilia. Già responsabile clinico del Centro Disturbi Cognitivi di Reggio Emilia dal 2000 al 2016.


Professore, oggi si parla molto di DSA, ma nel contesto scolastico e familiare ci sono ancora pregiudizi e limiti. Secondo lei, a che punto siamo?


Sicuramente rispetto a dieci, quindici anni fa la situazione è notevolmente cambiata, innanzitutto perché gli operatori e tutti i tecnici che si occupano delle diagnosi sono molto più preparati e attenti. Inoltre, nel corso degli ultimi 15 anni ci sono state ben tre o quattro conferenze di consenso di aggiornamento per fare il punto sul tema. L’ultima si è conclusa dopo sei anni di lavoro nel 2022 e, quindi, diciamo che dal punto di vista scientifico e delle indicazioni professionali, per coloro che si occupano del tema specifico, sono stati fatti dei passi avanti notevoli e importanti.

Anche le capacità diagnostiche dei servizi sono aumentate, sia dei servizi pubblici sia ancor di più forse dei servizi privati, e in generale ci sono competenze molto più chiare e precise. Parallelamente – anche in seguito alla Legge 170 del 2010 – c’è stato, a livello scolastico, un approfondimento della conoscenza del problema. Questo movimento complessivo ha permesso di migliorare il destino e il percorso scolastico di molti ragazzi.

Oggi assistiamo a un fenomeno inconsueto fino a qualche anno fa: c’è un aumento enorme degli studenti con un DSA che finiscono il percorso della scuola secondaria e si iscrivono alle diverse università. Fino a qualche tempo fa, infatti, il dato più frequente era l’abbandono scolastico generalmente dopo le superiori, a volte anche prima.

Possiamo quindi rilevare senza dubbio un progresso notevole nella conoscenza del fenomeno e nella capacità di affrontarlo in maniera adeguata. Però, se consideriamo la cultura del nostro Paese, sappiamo benissimo che purtroppo il livello culturale medio italiano nel corso degli ultimi decenni è costantemente peggiorato. Quindi anche le conoscenze su argomenti di tipo scientifico e tecnico sono diventate appannaggio di una élite.

Questo è un problema che tuttora si ripercuote anche a livello sociale nei riguardi degli studenti con DSA, che non vengono compresi e capiti a volte dalla famiglia, a volte dalla scuola, ma in generale proprio dalla società.


Nel percorso di conoscenza sui DSA, secondo lei i media che funzione hanno?


Anche su questo fronte ci sono stati tutta una serie di cambiamenti che riguardano anche il linguaggio con cui si parla di queste problematiche. Però abbastanza spesso vedo ancora sui giornali espressioni come “affetto da dislessia” oppure modi di parlare dei DSA come se fossero una malattia o un’esperienza drammatica.

Per chiarire, i DSA sono una caratteristica individuale di funzionamento. E non sono una malattia, ma un modo di essere e di funzionare nel mondo. Non sempre la stampa e i media commettono queste imprecisioni o veri e propri errori, in alcuni casi si vede che c’è aggiornamento e voglia di capire e conoscere; forse si scivola un po’ nel ripetere sempre gli stessi concetti e le stesse formule stereotipate.

Per esempio, si parla molto di neurodiversità o neurodivergenza, ed è un bene. Ma anche qui a volte si tende ad essere un po’ ripetitivi e logori. Forse perché l’innovazione del linguaggio deve passare anche dalla ricerca scientifica e dalla capacità di aggiornamento continuo. E su questo – per cultura e procedure – siamo molto indietro. La società tende naturalmente al pregiudizio, all’esclusione, all’uso di comode etichette (ancestrali) che alimentano populismo e ignoranza.

L’epoca in cui viviamo è molto incline al catalogare senza riflettere più di tanto, è più semplice e comodo. Ma questo genera poi colpevoli che colpe non hanno, come il caso dei ragazzi con DSA.


Professore, parliamo della diagnosi che per alcune famiglie può essere molto disorientante. Per esempio, come dovrebbe essere fatto un referto per essere adeguato e utile alla famiglia e alla scuola?


Innanzitutto bisogna dire che il referto è la conclusione diagnostica di un percorso e deve essere un passo in positivo verso la conoscenza di se stessi e la capacità di affrontare il problema in maniera corretta. È chiaro che se manca cultura, se la restituzione delle conclusioni non viene fatta in maniera adeguata, il referto potrebbe essere vissuto in maniera molto negativa, come un’etichetta di handicap o simili.

Ma questo errore dovrebbe essere proprio evitato da tutti i tecnici, medici, psicologi che fanno le diagnosi e che stilano i referti. Devo però dire, a questo proposito, che sempre di più mi capita di vedere che proprio il referto, o comunque la diagnosi finale, è vissuta in maniera molto positiva, addirittura liberatoria.

Nel senso che molto spesso, soprattutto nei giovani adulti, c’è la percezione e la coscienza di avere qualcosa di particolare, qualcosa di diverso dagli altri. C’è quindi bisogno di dare un nome a questa situazione, di capire bene che non dipende da svogliatezza, scarsa intelligenza o incapacità.

Nel momento in cui riveli loro che sono semplicemente dislessici o discalculici, o che c’è qualche altro disturbo specifico di apprendimento che genera difficoltà, la loro condizione cambia: come se avvenisse una liberazione. Molto spesso questi ragazzi sono molto intelligenti, e la rivelazione del fatto che il problema riguarda solo un particolare aspetto del loro funzionamento cognitivo, che è quello della lettura, della scrittura o del calcolo, ha un effetto psicologico molto positivo.

Poi è chiaro che il modo di reagire alla diagnosi è diverso da una persona all’altra e diverso anche a seconda del contesto in cui si vive, della famiglia e della cultura di riferimento. Quando si consegna una diagnosi è necessario prestare attenzione accurata al nostro interlocutore e al contesto in cui è inserito, poiché ogni parola può avere effetti diversi e molto forti su chi ci ascolta.

Però ribadisco quanto ho verificato in questi ultimi anni: sempre di più la diagnosi viene accolta bene, perché la persona davvero si trova liberata da un sospetto che aveva in precedenza, cioè di essere un individuo che non ce la fa, poco intelligente, di poco valore.

Specialista in Neurologia, Socio della Società Italiana di Neuropsicologia e Docente di Neuroscienze presso l’Università di Modena e Reggio Emilia

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Prof. Enrico Ghidoni

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