Fondazione Irene Ets
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Il sogno – anzi il sognare, perché si tratta di un’attività psichica cardinale per l’equilibrio psichico della persona – è fenomeno interculturale e che si configura come qualcosa di assolutamente speciale all’interno della sfera del sonno: in quanto apertura su un altro mondo e con modalità rappresentazionali e affettive del tutto particolari, da sempre ha destato la curiosità e l’interesse dell’umanità intera, a prescindere – e nello stesso tempo senza poter fare a meno – delle differenze di razze, popoli e culture.
I sogni fin dall’antichità e in tutte le culture sono stati manifestazioni e veicoli di conoscenza delle divinità. Con Freud il sogno è diventato particolare forma di espressione dell’inconscio, cioè del divino che è in noi, di quell’Altro che portiamo dentro di noi e che ci abita in profondità.
Per questo il sogno da sempre si è rivelato il mezzo principale di comunicazione tra noi e il mondo interno ed esterno: una forma di linguaggio speciale, mascherato, che assume cioè la veste del registro simbolico e/o metaforico, un registro comunque enigmatico, che richiede pertanto una interpretazione per ritrovarne il senso profondo.
In questo senso il sogno si colloca all’origine del linguaggio, è il suo formatore e performatore sin dall’utero materno in cui si trovano per ricevere una forma ed essere veicolate le tracce emotive di quella parola che prima è suono, voce, presenza vibrante. Il feto sogna e impara i rudimenti di una lingua ancora corporea e neurale ma che è già comunicazione, relazione e attivazione di istanze, desideri e bisogni originari.
Grandi produzioni oniriche scandiscono, preludono o accompagnano – a volte determinano – i momenti forti della vita di un popolo o dei singoli individui attraverso l’irruzione di parole e di azioni di entità speciali che si presentano con i tratti riconoscibili o irriconoscibili di inquietanti estraneità, dotate peraltro di singolare autorevolezza e portatrici di messaggi e di esiti anche sul piano della veglia estremamente significativi per il sognatore o per la comunità di cui fa parte.
Si. La via dell’apprendimento inizia prima della nostra nascita. D’altronde i Greci dicevano “ho visto un sogno e non ho fatto un sogno”: questo perché avevano già percepito la potenza narrativa di qualcosa che ti si presenta davanti agli occhi, ti interpella e ti racconta.
Ovviamente questo tipo di apprendimento è fatto di salti e scarti logici e si fonda su forme di memorie ancora rudimentali, cioè essenzialmente fisico-emotive: suoni, toni, vibrazioni, forse anche profumi che vengono elaborati come messaggi e quindi ad un’acquisizione di senso. Ma sempre attraverso uno scarto. In quello spazio non lineare c’è apprendimento pieno.
Credo proprio di sì. Ma sempre di più ad occhi chiusi. Serrati. Non riescono cioè più a entrare in contatto con quella pelle simbolica che è lo specifico del sogno e che ricopre il messaggio profondo del sogno stesso. I motivi sono tanti e per lo più connessi con la specificità comunicativa del mondo attuale.
Occorrerebbe educare, anzi rieducare, i ragazzi a prestare attenzione e a imparare il linguaggio dei sogni, i cui effetti sulla vita diurna sono straordinari da tutti i punti vista, da quello cognitivo a quello affettivo e comportamentale a quello relazionale. Ma soprattutto nel caso di ragazzi con DSA credo che questo tema del sogno sia molto importante da esplorare.
Non dimentichiamoci per esempio di quanta ripetizione ci sia nell “atto” onirico, in quell’ andare e ritornare che ci rassicura e ci trattiene ad un tempo, anche con paura a volte.
Mi piace ancora ricordare che molte ricerche hanno rilevato un aspetto straordinario di quello che a me sembra l’embrionale apprendimento per via uterina: spesso nell’utero il bambino vede lo stesso sogno della mamma.
Lascio a voi l’interpretazione.
Professore di Psicologia