Fondazione Irene Ets
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Il mio interesse per i Disturbi Specifici dell’Apprendimento è iniziato quando ero ancora dall’altro lato del banco: sono andata a scuola in anni in cui l’attenzione per la neurodiversità era meno diffusa di oggi, ma si cominciava a parlare di questi disturbi come possibili cause delle fatiche scolastiche di alunni tipicamente considerati pigri o svogliati.
Mi sembrava una rivoluzione copernicana: se da secoli si attribuivano alla scarsità di impegno difficoltà che invece vanno ricercate nel funzionamento cognitivo individuale, sarebbe bastato adattare l’insegnamento a queste scoperte e non sarebbe più stato necessario imparare soffrendo.
Quando poi sono tornata a scuola come docente mi sono resa conto che le cose non erano proprio come le avevo immaginate: gli ostacoli per gli alunni e l’indifferenza degli insegnanti erano ancora lì, ma in una nuova veste discorsiva e burocratica.
Purtroppo, per molti colleghi la questione si riduce al fastidio di dover redigere Piani Didattici Personalizzati a inizio anno, pratica che si aggiunge a un carico già pesantissimo di burocrazia scolastica e che spesso finisce per tradire proprio il suo intento di personalizzazione: non ho ancora trovato Consigli di Classe disposti a confronti complessi sui singoli alunni, quasi sempre invece viene consegnato un modello standard di PdP insieme all’invito a fare “qualche adattamento”; questo poi si traduce spesso in un’applicazione distratta e approssimativa delle misure dispensative e degli strumenti compensativi.
Un altro segno della scarsa attenzione data ai DSA nella scuola è il fatto che tutto questo avvenga a inizio anno, senza che ci sia stato modo di valutare in classe le difficoltà dello studente o di avere un confronto con i professionisti che hanno emesso la diagnosi – cosa che sarebbe utilissima ma non succede quasi mai, delegando ai genitori la responsabilità di consegnare e illustrare i documenti diagnostici al docente coordinatore della classe.
Nelle famiglie – per cui spesso è difficile sostenere le spese di un percorso diagnostico, come sa chi conosce la Fondazione Irene – ho riscontrato atteggiamenti che, pur nella loro differenza, si rivelano come le due facce della stessa sfiducia: c’è chi rifiuta decisamente l’idea di una diagnosi e chi, invece, cerca la certificazione perché si rende conto che questo significherà una tutela e magari un trattamento più morbido per i figli da parte degli insegnanti. È una preoccupazione comprensibile, ma rischia di diventare un compromesso al ribasso: non sarebbe meglio immaginare una scuola da cui non ci si debba difendere perché la si riconosce come luogo di sostegno e supporto nella crescita dei ragazzi? Per raggiungere questo obiettivo però va rimesso al centro ogni alunno con la propria esperienza individuale e irripetibile: quello che ho capito in questi primi anni di insegnamento è che per analizzare la dimensione macro di fenomeni complessi come questo bisogna osservare con grande attenzione il micro di ogni caso specifico, rieducandoci tutti – insegnanti, clinici, genitori – all’ascolto e all’osservazione.
In particolare, c’è una parte che si concentra sulla costituzione ed uso dei test.
“Scettica” è un aggettivo interessante perché deriva dalla parola greca “sképsis”, che significa “ricerca”. È proprio questo che vorremmo dai nostri studenti: che tengano alta la guardia esercitando l’arte del dubbio, nella direzione di una ricerca permanente. Purtroppo, però, questo spirito scarseggia nel campo della gestione e presa in carico dei Disturbi Specifici dell’Apprendimento: si parla moltissimo di interdisciplinarietà, ma la si pratica ancora troppo poco. La mancanza di comunicazione tra competenze diverse si traduce a tutti i livelli in pratiche parziali o incomplete, quando non proprio scorrette.
Nel corso della sua ricerca, ha riscontrato diversi problemi che riguardano sia le batterie di test a disposizione dei clinici, sia il modo in cui questi test vengono somministrati. Per chi si occupa di linguistica, è facile rendersi conto di come importanti aspetti linguistici siano del tutto tralasciati, sottodimensionati o travisati, il che è inaccettabile in sede di accertamento di disturbi che riguardano proprio il linguaggio.
Un esempio: l’uso diffuso di test destinati ai Disturbi del Linguaggio per le diagnosi di Disturbi dell’Apprendimento. Non si tiene conto delle differenze diamesiche tra la varietà scritta e la varietà orale di una stessa lingua.
Ci sono poi alcune prove che rischiano di trarre in inganno il soggetto esaminato per la loro stessa struttura, con formulazioni più simili a trabocchetti linguistici che a strumenti di misurazione delle abilità.
Bisogna sottolineare anche che nel setting di un test è più facile andare in confusione e commettere errori che non si farebbero in altre situazioni. Ovviamente, ci sono professionisti che prevedono queste variabili nel loro lavoro e propongono percorsi diagnostici ad ampio raggio, ma purtroppo è capitato spesso di vedere diagnosi emesse dopo un unico incontro o con metodi che pregiudicano l’attendibilità del giudizio clinico. Non è possibile valutare in termini di performance competenze che, come quella linguistica o quella legata alla lettoscrittura, sono inscindibili dal contesto di esecuzione.
Passando dal lato istituzionale a quello relazionale, i problemi si riscontrano non solo nei testi di riferimento, ma emergono continuamente nelle pratiche quotidiane e nelle microinterazioni tra i professionisti (clinici o scolastici) e i ragazzi. Nelle interviste, ha registrato alcune costanti che devono interrogarci: sia in chi provava disagio sia in chi si sentiva sollevato dall’arrivo della diagnosi, c’era la stessa sensazione di avere avuto l’attribuzione esterna di un proprio tratto identitario permanente.
Gli stessi testi faticano a chiarire se nel caso dei DSA si possa parlare di “disturbo” o di “caratteristica”: una confusione che manda ai bambini e ai ragazzi messaggi contraddittori e rischia di far vivere la diagnosi come uno stigma (negativo o positivo). Non bisognerebbe dimenticarsi che anche quella di DSA è una categoria interattiva, che porta cioè chi viene incluso in una definizione a comportarsi di conseguenza a prescindere dalle proprie capacità o evoluzioni.
Queste interferenze sono poi amplificate dalla ricezione scolastica della diagnosi: spesso gli insegnanti rispondono in modo distratto alle esigenze dell’allievo, o al contrario con un’applicazione rigida di norme e etichette. Entrambi questi approcci innescano facilmente negli studenti quello che Daniela Lucangeli chiama “cortocircuito emozionale”, un ostacolo all’apprendimento che stabilisce anche pericolosi rapporti di potere.
Come sottolineato dall’autrice, è fondamentale adottare un approccio critico e multidisciplinare ai DSA, ponendo al centro la persona e le sue specificità. Solo così si potrà garantire una presa in carico davvero efficace e rispettosa di tutti i soggetti coinvolti.
La lingua ha un ruolo fondamentale in diversi tempi:
L’immagine del triangolo:
L’immagine che viene spesso proposta quando si parla di DSA è quella di un triangolo ai cui vertici troviamo il soggetto con la sua famiglia, l’ambiente scolastico e i professionisti sanitari.
La responsabilità della scuola:
La scuola, proprio come la famiglia, ha il vantaggio della continuità nella relazione quotidiana con l’alunno, che impone una responsabilità ulteriore. Non è sufficiente che gli insegnanti recepiscano in modo passivo le diagnosi, limitandosi a “qualche adattamento”: va diffusa e condivisa un’educazione degli adulti alla presa in carico della neurodiversità.
Superare la diffidenza:
Mi pare ci sia una certa diffidenza reciproca tra ricerca teorica e prassi scolastica, eppure le evidenze scientifiche mostrano come un insegnamento aggiornato, che eviti di irrigidirsi in un’idea normativa di lingua, possa contribuire a ridurre molte difficoltà legate alla lettura, alla scrittura e al calcolo.
Percorsi di lungo periodo:
Servono percorsi di lungo periodo, che seguano i discenti nella loro crescita usando le forze di diversi professionisti che si confrontano: non bisogna avere paura delle contraddizioni o degli eventuali conflitti tra figure professionali, perché solo una sana relazione dialettica può rimettere al centro quello che dovrebbe essere l’obiettivo comune, cioè il benessere dello studente.
Un lavoro a più livelli:
Ovviamente perché questo sia possibile bisognerebbe intervenire su molti livelli, compreso quello del sistema lavorativo: la cronicizzazione della precarietà ci spinge in una direzione opposta, fatta di individui sempre più soli e di “progetti” sempre meno progettuali. Ma non bisogna lasciarsi abbattere dagli ostacoli: spostare l’attenzione dagli individui agli ambienti non significa deresponsabilizzare ma includere tutti in uno sguardo più ampio, che restituisca alla riflessione sulla lingua il ruolo che per lei auspicava il linguista e insegnante Adriano Colombo: un “campo di educazione alla razionalità” per studenti e professionisti.